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Immagine del redattoreRaffaele Bergaglio

Professionisti e crisi d’impresa: confini tra consulenza lecita e concorso nel reato di bancarotta

Aggiornamento: 26 dic 2024



La crisi aziendale è un momento di elevata tensione anche per i professionisti poiché problemi di tipo economico, patrimoniale, commerciale e organizzativo, possono comportare ripercussioni anche sul piano giuridico.


In questi contesti il ruolo dell’avvocato e del commercialista trascende quello di consulente contattato ogni tanto alla bisogna, finendo per diventare una vera guida strategica.


Talvolta, intervento del consulente prescelto dagli esponenti dell’impresa in crisi oltre collocarsi sulla linea di demarcazione tra risanamento e aggravamento del dissesto finisce per sfiorare il confine della condotta lecita. In questa prospettiva vale la pena domandarsi fino a dove può spingersi un professionista senza oltrepassare il confine di legalità e in cosa consista la consulenza illecita.


Già disciplinato dalla Legge fallimentare (R.D. 267/1942), il reato di bancarotta è oggi previsto dal D.lgs. 14/2019 (Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza), che distingue tuttora due forme principali: la bancarotta fraudolenta di cui all’art. 322 (vecchio art. 216 L.f.) e la bancarotta semplice prevista dall’art. 323 (vecchio art. 217 L.f.).


Specie in relazione alla bancarotta fraudolenta, che rappresenta il delitto più grave nella crisi d’impresa, ci si chiede in quale misura la condotta del professionista, consulente esterno dell’impresa commerciale, possa assumere rilevanza penale: come può il consiglio tecnico (giuridico, contabile, organizzativo, strategico ecc.) configurare distrazioni, occultamenti, manipolazioni contabili, pagamenti preferenziali in danno dei creditori o di una parte di essi?


In fin dei conti, il Codice penale prevede le cause di giustificazione all’art. 51, secondo cui l’esercizio del diritto e l’adempimento di un dovere, ivi compreso quello professionale di assistere e tutelare gli interessi del cliente, dovrebbe costituire una esimente.

Inoltre la bancarotta fraudolenta è un reato doloso (peraltro punito con pene elevate, da 3 a 10 anni di reclusione), sicché a prima vista potrebbe sembrare improbabile ipotizzare che un professionista, soggetto che opera in uno studio situato altrove, fuori dalle mura aziendali, il quale si relaziona con innumerevoli altri clienti, possa essere chiamato rispondere dell’operato di uno di essi andato in crisi con la propria impresa.


Tuttavia, se l’assistenza professionale non viene esercitata in modo corretto e trasparente, sussiste il rischio di configurare abusi, che oltre a non giustificare il consiglio dato, potrebbero addirittura contagiare la posizione del consulente sotto il profilo penale.

Il delitto di bancarotta fraudolenta, invero, è un reato “proprio”, ovvero a soggettività ristretta: normalmente, autore di questo delitto dovrebbe essere solo colui che sia in possesso delle qualifiche soggettive di imprenditore, amministratore, direttore generale, sindaco, liquidatore, previste dalla norma. Sennonché esistono eccezioni a tale principio generale, riconducibili, a grandi linee, al consulente esterno che diventi concorrente ovvero compartecipe dell’imprenditore o, addirittura, amministratore di fatto (ancorché occulto) dell’impresa.


Giurisprudenza ormai consolidata, in presenza di determinate condizioni, ammette la possibilità che soggetti diversi dall’imprenditore commerciale e dal dirigente concorrano con costoro nella realizzazione dell’illecito, in virtù dell’applicazione dei principi generali in tema di concorso di persone nel reato (art. 110 ss. Cp), tuttavia la cosa non è così scontata, anche se il continuo ricorso a risorse professionali esterne da parte delle società lo rende sempre più frequente.


Affinché vi sia il concorso dell’extraneus nel reato di bancarotta fraudolenta è necessario che il consulente (legale, contabile, strategico, ecc.), consapevole dei propositi dolosi (p.es. distrattivi) dell’imprenditore o amministratore, fornisca consigli sui mezzi e sui metodi idonei a danneggiare i creditori, o lo assista nella conclusione di tali negozi, o svolga un’attività diretta a garantire l’impunità, o rafforzare, con il proprio ausilio e le proprie preventive assicurazioni, l’altrui proposito delittuoso (Cass. pen. Sez. V, 06/11/2015, n. 8276; Cass. pen. Sez. V, 18/11/2003, n. 569; Cass. pen. Sez. V, 15/02/2008, n. 10742; Cass. pen. Sez. V, 23/06/2016, n. 42572; Cass. pen. Sez. V, 09/10/2013, n. 49472).


In tale prospettiva diventa importante analizzare anche la tempistica con la quale il professionista abbia ipoteticamente consumato le condotte che potrebbero integrare il concorso nel reato (ex art. 110 Cp): esse devono essere antecedenti o concomitanti al default e devono sostanziarsi non già nei tipici servizi di carattere professionale, bensì nella ideazione e programmazione delle attività illecite, come atti di distrazione, o nel suggerimento di tali condotte in modo tale da rafforzare concretamente il proposito criminoso dell’imprenditore (cfr. Cass. pen. Sez. V, 05/02/1986, n. 1298).


Un ulteriore profilo di responsabilità penale si configura qualora il consulente assuma un’influenza sostanziale e significativa sulle decisioni aziendali, pur senza rivestire formalmente cariche societarie. Questa figura, riconducibile al concetto di amministratore di fatto, ombra od occulto, viene riconosciuta dalla giurisprudenza come corresponsabile di illeciti societari di questo tipo. Solitamente, anche questo tipo di contestazione viene ascritto in chiave di concorso di persone nel reato, atteso che il professionista che funga da amministratore di fatto, affianca o si sovrappone all’organo direttivo formalmente nominato, condizionandone le scelte. Un esempio significativo è dato dal caso Parmalat, in cui un avvocato è stato condannato non solo per il concorso nel reato di bancarotta fraudolenta, ma anche come organizzatore di un’associazione a delinquere, nonostante fosse formalmente solo un consulente esterno. La sentenza ha stabilito che l’influenza diretta e continua di un consulente nella gestione aziendale può condurlo ad essere equiparato ad un amministratore di fatto.


Deve tuttavia essere chiaro, che i casi di concorso nel reato di bancarotta sono assai particolari, poiché non tutti gli interventi del professionista, che spesso si trova ad intervenire con estrema urgenza in situazioni assai delicate, comportano automaticamente responsabilità penale. Innanzitutto è necessario dimostrare che il professionista abbia fornito un contributo causale concreto, rilevante e consapevole all’azione criminosa. Vi deve quindi essere un accordo partecipativo, anche tacito, tra fra il consulente e l’imprenditore. Inoltre è necessaria la prova del dolo perché la compartecipazione deve essere intenzionale e non frutto di mera contingenza (cfr. Cass. pen. Sez. V, 09/03/2005, n. 12824).


Proprio intorno alla prova e alla sua solidità ruota l’addebito di condotte idonee a configurare il concorso in bancarotta del professionista. Troppe volte sovvengono situazioni in cui i veri responsabili del dissesto cercano di difendersi incolpando ingiustamente i consulenti di aver suggerito determinate condotte, come la falsificazione di bilanci, la realizzazione di scorpori di rami d’azienda, il pagamento preferenziale di determinati creditori, solo per fare alcuni esempi. Certo è che in sede processuale penale la prova deve essere particolarmente rigorosa, sicché le dichiarazioni del singolo amministratore che scarichi le responsabilità sul commercialista o sull’avvocato devono essere supportate da altri convincenti elementi di prova, scritti (e-mail, WhatsApp, ecc.) od orali (altre dichiarazioni convergenti), che diano la prova secondo il paradigma dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio»: com’è noto, si tratta di uno standard probatorio che regola il grado di certezza richiesto per una condanna penale, assicurando che il giudice si pronunci in tal senso solo se la colpevolezza dell’imputato è dimostrata con un livello di certezza elevatissimo. Diversamente opinando, poiché il mondo dell’impresa di oggi è caratterizzato dal continuo ricorso a consulenti esterni, dovuto a scelte organizzative legate al numero e al costo dei dipendenti, i processi rischierebbero di veder continuamente coinvolte figure professionali che, si ripete, non sono contemplate tra i soggetti attivi delle norme sulla bancarotta. In definitiva, a maggior ragione quando si parla di concorrenti esterni in un reato caratterizzato tipicamente da altre figure sul piano soggettivo, la prova del coinvolgimento del professionista dovrebbe essere la più rigorosa possibile; ciò affinché l’eccezione non diventi la regola.


L’introduzione del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza ha comportato una rivalutazione del ruolo dei professionisti, ma è ragionevole supporre che nel lungo periodo questo comporti anche una maggiore esposizione degli stessi in termini di responsabilità, ivi compresa quella penale in casi particolari. D’altra parte, il CCII pone un accento sulla prevenzione attraverso gli assetti organizzativi adeguati (art. 2086 Cc), in relazione ai quali i professionisti dovrebbero supportare gli imprenditori nell’implementazione di sistemi di controllo e monitoraggio, non solo dal punto di vista giuridico, ma anche in un’ottica strategica. Peraltro, nella composizione negoziata della crisi, quale strumento per risolvere le difficoltà aziendali in modo tempestivo e consensuale, i professionisti devono assistere l’imprenditore nella preparazione della documentazione e nelle trattative con creditori, banche e altri stakeholder.


Fermi restando i casi di esenzione dai reati di bancarotta (art. 324 CCII), che rimangono ben saldi, si tratta pur sempre di ambiti molto delicati, nei quali il consiglio tecnico può lambire profili di responsabilità penale. Si deve infatti ricordare che la bancarotta è considerata un reato di pericolo perché la sua configurazione non richiede che si verifichi un danno effettivo e concreto ai creditori, essendo sufficiente che le azioni poste in essere dall’imprenditore o da altri soggetti (come i professionisti esterni) creino una situazione che metta in pericolo la tutela del patrimonio aziendale o i diritti dei creditori. Anche il legislatore della recente riforma (D.lgs. 14/2019) ha inteso ribadire una tutela preventiva del patrimonio aziendale, con l’obiettivo di prevenire possibili condotte che potrebbero compromettere la soddisfazione dei creditori. Di conseguenza, persino in sede di consiglio tecnico, è bene adoperare la massima cautela, ricordando che spesso il confine tra lecito ed illecito è molto sottile: non è necessario che eventuali condotte abbiano già arrecato un danno concreto (ad esempio, il mancato pagamento dei creditori), ma è sufficiente che abbiano creato un rischio potenziale per i diritti dei creditori.

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